Ranieri, il mio amore per il calcio
“Mio padre aveva una macelleria nel cuore di Testaccio, ero l’ultimo di quattro fratelli e a volte, come tutti, davo una mano in negozio, ma meno degli altri. Passavo le giornate all’oratorio che, a quei tempi, sostituiva la scuola calcio. Messa, pane e marmellata e poi finalmente il pallone. Giocavo anche a basket e pallavolo, tutto tranne il tennis, che non mi piaceva. Poi sono entrato nella Dodicesimo giallorosso, una squadretta sovvenzionata dalla Roma. Ero bravino, facevo l’attaccante e a un provino il mago Herrera mi scelse per la Roma, la squadra del mio cuore.Ho cominciato con la Primavera ma nelle partitelle del giovedì, contro due difensori come Bet e Santarini, non la vedevo mai. Così ho deciso di mettermi in difesa ed è stata la mia fortuna.Ho così realizzato il sogno che avevo da bambino, diventare calciatore.A diventare allenatore, invece, sinceramente non avevo pensato. Quando Gianni Di Marzio, che mi aveva avuto come difensore prima a Catanzaro e poi a Catania, mi ha suggerito la panchina della Vigor Lamezia, non ero troppo convinto, e invece…Mi volevano allenatore-giocatore ma ho subito messo le cose in chiaro: se dovevo cominciare una nuova vita, era inutile aspettare.A Catanzaro sono stato otto anni, è la città di mia moglie Rosanna e anche mia figlia Claudia è nata lì. Ho una casa a Copanello e ogni estate ci ritroviamo con i miei vecchi compagni, che sono diventati gli amici di una vita: appena ci rivediamo scatta la magia di un tempo. Siamo un bel gruppo: Silipo, Nicoletti, Spelta, Braga, Arbitrio, Novembre, Vichi e Pellizzaro. Il più famoso era Palanca. Per la verità il merito di questa intesa che dura nel tempo è delle nostre mogli: sono loro che si frequentavano già quando giocavamo. Come sempre nella vita i mariti vanno a ruota.Rosanna era figlia di un giornalista e la migliore amica della fidanzata del mio capitano, Banelli, un altro del gruppo. Tutto è successo in fretta e siamo ancora qui, vicino ai cinquant’anni di matrimonio. Rosanna c’è sempre stata, nei momenti belli e in quelli difficili, mi ha seguito in ogni avventura, è la regina dei traslochi. Allo stadio però viene di rado, dice che soffre troppo.Prima del Catanzaro ho esordito nella Roma, la squadra del mio cuore.Mazzone, un altro dei miei maestri, mi diceva che se non si allena la Roma non si è allenatori. Quando mi hanno chiamato, la prima volta, ci ho pensato parecchio. Temevo di fallire.Alla fine ho quasi vinto uno scudetto, ma sono pratico e fatalista. È vero che, per come si erano messe le cose, potevamo farcela. Però nessuno ricorda mai che sono arrivato a campionato iniziato e ho fatto più punti dell’Inter. Eravamo in testa, ma abbiamo perso in casa 2-1 con la Samp, una partita che doveva finire 3-0. Il calcio è così. Della Roma mi resta il cuore gonfio della mia gioia di essere romanista.La prima squadra vera che ho allenato è stata il Cagliari, Cagliari è tutto per me, il mio posto nel mondo. Quando sono arrivato la prima volta ero un giovane tecnico senza certezze e sono stati tre anni bellissimi, dalla serie C alla serie A con relativa salvezza.La seconda volta, invece temevo di deludere la gente. Mi sento figlio di quella terra. Poi però mi sono detto: non fare l’egoista. Il Cagliari aveva bisogno e mi sono lanciato. Cagliari per me è più importante di Leicester.A proposito di Leicester, non pensavo di vincere, non sono un sognatore e so quanto sia difficile la Premier League. La mia preoccupazione in quel periodo era mantenere la leggerezza nello spogliatoio.La storia della pizza nacque per scommessa. Stavamo subendo troppi gol e allora ho detto: se teniamo la porta chiusa vi offro la pizza. Ho trovato un posto, nel cuore di Leicester, che ci permetteva anche di cucinarla. Serate divertenti che sono servite a cementare il gruppo.Fu un’annata perfetta, irripetibile. Si sono allineati tutti i pianeti. Il maestro Bocelli mi ha telefonato perché voleva venire a cantare per noi. Si è accordato con la società per una data e casualmente è successo subito dopo che avevamo vinto il titolo. Una serata perfetta.Appena arrivato in Inghilterra, al Chelsea, mi chiamavano Tinkerman, un aggettivo che si può tradurre in due modi: pasticcione per chi mi voleva male, aggiustatutto per chi, invece, era dalla mia parte. La verità è che cambiavo spesso, sia formazione che sistema di gioco, una cosa normale in Italia, ma gli inglesi non erano abituati. A Londra però sono stato benissimo, ho una casa e ci torno spesso.Mourinho mi diceva che ero vecchio e che non parlavo l’inglese. Per la verità, oltre all’inglese, parlo anche francese e spagnolo, le lingue dei Paesi in cui ho allenato. Ma quando sono andato all’Inter siamo diventati amici. Non so come sia successo, forse gli hanno raccontato come ero e come allenavo. Così quando mi hanno mandato via dal Leicester, lui che era al Manchester United, si è presentato in sala stampa indossando una maglietta con le mie iniziali: C.R..Ho allenato altre piazze speciali come Napoli e Firenze, il primo Napoli senza Maradona. Con Diego ci siamo parlati per telefono, ha sempre amato la sua squadra. A Firenze mi ha voluto Mario Cecchi Gori. All’epoca non c’era la possibilità di vedere tutte le partite di A e io andavo a Saxa per seguirle in bassa frequenza. Così ho conosciuto Mario. A Firenze sono stato quattro anni, il periodo più lungo che ho passato in una squadra, e ho allenato Batistuta.Il calcio è cambiato. I giocatori passano la vita attaccati ai cellulari come tutti i giovani, ai miei giocatori dico sempre di non stare dietro ai social, che sono una visione troppo parziale della realtà e fanno sprecare energie preziose.Quando ho lasciato Cagliari a fine maggio ho detto: sarà il mio ultimo club, ma confesso che avevo voglia di rimettermi in discussione”